giovedì 5 aprile 2018

I LUOGHI DELL'IMPRINTING

Il 27 marzo è stata tenuta dal professor Saggio la lezione sull'Imprinting, a seguito della quale è stato chiesto agli studenti di scrivere un testo che descrivesse quello che per loro è il luogo che riveste questo primordiale significato. Ogni elaborato contiene la descrizione del luogo con una interpretazione grafica per mezzo di schizzi e schemi, delle parole chiave che descrivono gli elementi che più lo rappresentano e una ipotesi di come queste definizioni possono accompagnare la fase progettuale...

Di seguito alcuni Imprinting scelti come esempio, per discuterne in classe.



A. BENEDETTA DI LUZIO
To do al link: http://benedettadiluziolabivsaggio.blogspot.it/2018/04/imprinting.html


Ricercare i propri luoghi impressionanti… come ripercorre se stessi a volo d’uccello e osservare il proprio mondo per intero, cogliendone la vastità e ricchezza, ma non percependone ad una prima veduta ogni dettaglio. Così ci si avvicina planando sugli angoli e gli scorci che più colpiscono il nostro occhio. Ci riposiamo, fermiamo l’immagine e ne assaporiamo il ricordo. A volte l’immagine sembra più sbiadita, una scena più frammentaria ma con sensazioni  vivide e chiare, altre volte è a colori ed alta definizione, ma il filo che collega alle emozioni non è sempre integro. Altri ricordi sono in sordina e bisogna scavare molto, ma di altri al contrario ne percepiamo ancora i sensi, in maniera così diretta che provoca un’esplosione emotiva. Quel momento e quel luogo sono ancora lì, cosi presenti e reali che ci appartengono. Mai avrei pensato di fare questa ricerca in questo contesto, né tanto meno di raccontarlo a qualcun’altro mettendolo nero su bianco, in un blog, sul web, ma allo stesso tempo è un’occasione interessante che mi ha permesso di ripercorrere ricordi e luoghi più lontani o nascosti, mi sono soffermata su quelli che hanno avuto una potenza emotiva e un’energia particolare su di me.Ciò che ho trovato più interessante è stato scoprire con naturalezza che alcuni dei luoghi che tornavano con particolare forza alla mia mente avevano in comune lo stesso scenario, il deserto. Mi rendo conto che sarebbe stato più semplice e forse coerente scartare questo specifico posto e considerarne altri del mio passato, magari quelli più strettamente connessi ai primissimi anni di vita, e magari più inerenti all'ambito dell’architettura. Ma poi tornavo con la mente e con il cuore sempre lì, e le connessioni sono state per me sempre più chiare. 

Avevo 9 anni ed era estate, e con la mia famiglia e i nostri amici facemmo un giro della parte occidentale degli Stati Uniti. Il giorno che visitammo la Monument Valley, al confine tra Utah e Arizona, fu un giorno per me particolare, in quanto dalla battuta di un nostro amico, scoprii, grazie alla particolare argutezza che mi contraddistingueva, che Babbo Natale non esisteva e che era tutta un’invenzione ben progettata dai miei genitori e ben coperta dai miei fratelli. Nonostante la mia età non fosse effettivamente così tenera, la rivelazione e l’ammissione di quella realtà così amara fu per me un colpo al cuore, vissuto come un dramma; non ero realmente arrabbiata con loro ma mi sentii allo stesso tempo presa in giro, perché non capivo il senso di farmi credere a quella magia. Non volevo fare i conti fino ad allora con la realtà su cui mi affacciavo, ero la più piccola  di casa, ma anch'io dovevo iniziare a crescere. I conti li dovetti simbolicamente fare lì, di fronte ad un luogo così singolare. Il calore così forte del sole e la luce che si rifletteva su quella distesa immensa di sabbia rossa sembravano in parte in contrasto con il mio umore, ma allo stesso tempo mi avvolgevano in quel bagliore così diretto. Quel paesaggio in quella giornata mi stava accogliendo. Mi ha accolto sia come scenario dal finestrino della macchina nel momento in cui cercavo conforto nei miei familiari: le immagini scorrevano contemporaneamente allo scorrere dei miei pensieri e lacrime; e sia  nel momento in cui arrabbiata ho sentito il bisogno di allontanarmi dagli altri, in sosta sulla strada fuori dalla jeep, per avvicinarmi a quella distesa immensa e prevalentemente pianeggiante e per camminare su quella terra cosi rossa e suggestiva, andando incontro alla vista delle imponenti guglie di roccia che si mostravano davanti a me.  Vere e proprie sculture e edifici di roccia e sabbia ( geologicamente definite “ testimoni di erosione”) che si erigono nel paesaggio desertico creando figure che lasciano spazio alla nostra fantasia.
“Mesa” sono definite le formazioni rocciose più larghe che alte e “Butt” quelle più alte che larghe.Ho ben scolpito in mente che eravamo vicini al Mexican Hat quando mi sono allontanata quei pochi minuti, ma così fondamentali per ritagliarmi un momento da sola.Di fronte solo io, la terra e la roccia a forma di torre, ero lì quasi a volermi confrontare con lei.Ma io ero così piccola che il confronto non reggeva.Eppure la vastità di quel luogo era in grado di farmi sentire libera, non assorbita ma accolta.Incredibile come uno spazio cosi immenso possa essere sentito come uno spazio cosi intimo e personale.La stessa sensazione e la stessa tipologia di paesaggio desertico l‘“Mesa” sono definite le formazioni rocciose più larghe che alte e “Butt” quelle più alte che larghe.Ho ben scolpito in mente che eravamo vicini al Mexican Hat quando mi sono allontanata quei pochi minuti, ma così fondamentali per ritagliarmi un momento da sola.Di fronte solo io, la terra e la roccia a forma di torre, ero lì quasi a volermi confrontare con lei.Ma io ero così piccola che il confronto non reggeva.Eppure la vastità di quel luogo era in grado di farmi sentire libera, non assorbita ma accolta.Incredibile come uno spazio cosi immenso possa essere sentito come uno spazio cosi intimo e personale.La stessa sensazione e la stessa tipologia di paesaggio desertico l‘ho ritrovata negli anni, in luoghi e momenti differenti. In un primo istante mi è sembrato ironico e forse non adeguato  trovare nel deserto il luogo del mio imprinting, un luogo non–luogo.Credo sia indubbia la spettacolarità e bellezza di questo scenario, ma come è possibile arrivare a sentire un’appartenenza ad un luogo che è  fuori dalla vita circostante, un grande vuoto sulla Terra? E in che modo può questo Nulla essermi di spunto per la costruzione di qualcosa? Quel luogo mi ha dato qualcosa che non trovavo da altre parti: ha accolto i miei spazi vuoti, trasformando l’idea di vuoto in ricchezza, libertà sconfinata, contatto con la terra e con la luce. Uno spazio magico e spirituale.









B. GIORGIA ARTIOLI
To do al link: https://giorgiaartiolilabivsaggio.wordpress.com/2018/04/05/imprinting/



Qualche giorno fa mi stavo asciugando i capelli e ho avuto quasi un’illuminazione: è da sempre uno dei momenti in cui più mi trovo a riflettere, sulla giornata trascorsa, su eventi che mi sono rimasti impressi, su una qualche conversazione, un momento in cui semplicemente mi fermo a pensare.
Questa volta, come spesso è successo negli ultimi giorni, mi è capitato di riflettere su quale potesse rappresentare il mio luogo della memoria. Inizialmente la vedevo solo come “compito a casa” per l’università, ma è poi diventata una vera e propria riflessione personale, un modo per capire che posti potessero aver avuto una profonda influenza su di me, segnando in un qualche modo la mia esistenza e ho iniziato a pormi parecchie domande. Come può un luogo rappresentare una parte di noi? Una parte così insita e radicata da non renderci neanche conto che possa condizionare le nostre scelte? In che spazio potevo aver preso o lasciato qualcosa di me? Inizialmente ho pensato che il mio imprinting potesse essere rappresentato dai momenti in cui più mi sono sentita “libera” e in pace con me stessa, ossia quelli in cui sono partita per destinazioni sconosciute, i momenti in cui viaggiavo verso nuovi luoghi o quando mi trovavo in un posto diverso, interrompendo la routine quotidiana, cambiando “aria”, senza pensieri o preoccupazioni. Lo stesso spostarmi e cambiare ambiente è stato per me negli anni motivo di crescita e di arricchimento. Riflettendo però ho capito che il luogo in cui sono sempre tornata alla fine di tutti gli spostamenti e di cui più di qualunque altro sento la mancanza quando sono lontana è Modena, la città in cui sono nata e cresciuta. Ho iniziato ad apprezzarla veramente solo quando mi sono trasferita a Roma per studiare. Soltanto l’assenza mi ha fatto capire quanto tornare nei posti in cui ho passato diciannove anni della mia vita potesse risvegliare emozioni così forti. Tornando a casa per le vacanze di Pasqua ho avuto modo di ripercorrere strade e posti della mia infanzia e adolescenza; come avevo capito qualche sera fa, il luogo che più risveglia in me una piacevole sensazione di malinconia e nostalgia per gli anni passati, che più mi dà la sensazione di “tuffo nel passato” è un posto a me molto caro, che ho sempre chiamato “i binari”.

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Si tratta di un piccolo sottopassaggio che sostiene le rotaie di un treno regionale, il quale collega la città di Modena e quella di Sassuolo; si trova a pochi metri da casa mia, nel parco in cui sono cresciuta e ho passato la maggior parte dei pomeriggi dopo scuola fin da bambina.
Era un tardo pomeriggio di qualche anno fa. Uscii per fare una passeggiata, quando mi imbattei per l’ennesima volta nel sottopassaggio.
Guardando con attenzione notai per la prima volta che la rete che recintava lo spazio che portava ai binari, collegandosi alla balaustra del “ponticello”, era rotta.
Il buco era abbastanza grande perchè potesse passare una persona. Decisi così di salire per ”esplorare” il posto su cui non mi ero mai interrogata in tanti anni.
Era l’ora del tramonto, non c’era nessuno nei dintorni e si sentivano soltanto gli uccelli cinguettare.
Come arrivai sopra alle rotaie capii che avevo trovato un posto unico. I binari si perdevano da un lato tra le case vicine, dall’altro in mezzo ad alberi e cespugli, si tuffavano letteralmente nella natura.



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Ho passato pomeriggi e serate intere lassù, seduta a pensare, ascoltare musica, disegnare e chiacchierare con gli amici di una vita.
Nei momenti in cui avevo bisogno di estraniarmi dalla realtà e prendermi un attimo per me stessa andavo a sedermi là. Le persone passeggiavano o sfrecciavano in bicicletta al di sotto, quasi senza accorgersi della mia presenza; la quiete regnava sovrana.
Trovarmi sui binari mi ha sempre dato un senso di libertà, l’impressione di trovarmi in equilibrio su di una direzione volta all’infinito, all’ignoto; i binari sono metafora dei viaggi che ho fatto, i viaggi che ancora devo fare per conoscere, sperimentare e vivere nuovi luoghi, ma rappresentano anche il ritorno alla propria casa, alla propria terra.
L’immagine racchiude un po’ tutto quello che mi ha portato fino a qui e che mi ha permesso di diventare ciò che sono oggi.


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Due caratteristiche:
  • Direzione

  • Sopraelevata
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La direzione metaforica può essere la linea immaginaria di connessione con elementi importanti dell’intorno. Le direzioni della tessitura che definiscono la trama del contesto.
Il “sopraelevato” è l’elemento che nel progetto può garantire la separazione tra la stazione e la zona dedicata alle arti del corpo, alla “scuola” di danza, musica e teatro, che al contempo sono strettamente connesse tra loro.







C. FEDERICA ARIDON
To do al link: https://federicaaridonlabivsaggio.blogspot.it/2018/04/degli-imprinting_5.html

Sveglia, ore 6:00 am.Si va a casa. Ormai sembra così rapido il viaggio, tutto calibrato dal continuo andirivieni collaudato da ormai 23 anni. Atterraggio a Madrid alle 13, mezz'oretta di macchina ed eccoci qui. A Colmenarejo, per gli amici, Colme. Qui è nata mia nonna, nel lontanissimo 1930, poco prima della guerra civile spagnola. È un piccolo paese, a 35 km da Madrid, e a 1,5 km da Galapagar, dove invece è nato mio nonno. 
Mia mamma ha passato tutta la sua infanzia qui, prima di doversi allontanare necessariamente per studiare. Intorno a Colmenarejo c’è la Sierra. Montagne. Picchi. 
Mio nonno e le sue passeggiate trovano terreno fertilissimo qui. Ogni giorno, con i suoi amici, sparisce verso le 10 e ricompare verso le 14, giusto prima di mangiare. Gira sempre gli stessi posti, le stesse strade e incontra le stesse persone (di cui il 90% sono familiari di mia nonna), ma per lui è perfetto così. 
Talvolta si porta mio fratello, unico nipote maschio, perché si, mio nonno appartiene ancora a quella mentalità. Più che altro se lo porta quando va a Galapagar, suo “lontanissimo” paese natio, un po’ come nipote di rappresentanza, perché è tremendamente fiero di lui. Lo tiene ore ed ore nello stesso bar con tutti i suoi giovani amici ottantenni, chiedendogli di tanto in tanto di parlare della vita in Italia, dello sport che fa, o cose del genere, come se vivessimo in una tribù in Africa.
Io invece sono la nipote delle passeggiate senza senso, forse le più belle, a metà tra la natura, l’avventura e la scoperta. La maggior parte delle volte, mio fratello, stanco e scocciato dalle mattinate nel bar, si rifiuta di andare di nuovo in giro rischiando di trovare qualche altro “giovincello” con cui chiacchierare per ore. 
Le mie cugine, troppo pigre, si rifiutano quasi sempre. Io invece, con berretto e bastone, seguo mio nonno.
Più che le passeggiate in paese, costituito da una piazza con l’Ayuntamiento, la chiesa e il cimitero, adoro andare all’Ermita. 
Merita una menzione interessante il cimitero. Tutte le lapidi sono parenti di mia nonna, è come fare un viaggio nel tempo. “¿Ves? Esa es la tía Marcelina, la hermana de Demetrio.. ¿has entendido quien es?”
Ovviamente tutte persone nate nel 1880 di cui io non so assolutamente nulla, dai nomi più improbabili, con foto abbastanza inquietanti. 
Ma per mio nonno è come andare a trovare i parenti, un po’ come se fosse perennemente Natale, ci si trova tutti insieme, la famiglia riunita. La cosa più bella è il rapporto che hanno le persone anziane con la morte. Senza tristezza e malinconia, ma con consapevolezza e accettazione.
A parte questo, Colmenarejo è minuscola. Con pochi passi si è fuori dal centro abitato, e si è “en el campo”.
Con nonno camminiamo sulla strada dove, piano piano, si sfuma progressivamente dall’asfalto alla terra battuta, polverosa. Ogni tanto passa qualche bicicletta, finti atleti che vanno verso “Los Arroyos”. Le poche macchine che passano alzano dei polveroni tremendi e ci costringono a spostarci ai lati della strada, interrompendo i nostri discorsi o talvolta, se in silenzio, i nostri pensieri. All'inizio della strada sterrata c’è la prima tappa fissa del nostro percorso, “Las Pilas”. “Qui” dice sempre mio nonno “tua nonna veniva a lavare con il cesto e l’asino ogni volta che doveva fare il bucato, pensa che è uscito anche su Telemadrid, perché è un posto importante”. E ci credo. Per loro deve essere incredibile come tutto il mondo sia tremendamente cambiato e come invece parti della loro infanzia e vita sono ancora li. In questo caso si tratta di pietre di diverse dimensioni che, assemblate in un certo modo, costituiscono delle vasche. Ogni volta che passiamo di lì la situazione è diversa: a volte la vegetazione è così fitta che nemmeno si riescono a vedere dalla strada, altre volte ci si trova qualche scritta sopra (perché gli incivili sono ovunque, non solo nelle periferie delle grandi città). Però mio nonno ci si vuole sempre avvicinare, e io lo seguo, perché ho paura magari che inciampi, o che si punga con qualcosa. Lui lo sa, e forse lo fa proprio per questo, per farmi vedere ogni volta la stessa cosa, per farmi rivivere un po’ del suo passato che io invece posso solo immaginare.

Una volta mi ci ha fatto addirittura sedere sopra, e mi ha detto: “Dame el movil, te hago una foto”. La conservo ancora quella foto: le pietre, il prato e io, ma senza testa.Andiamo avanti e ci addentriamo in mezzo al prato. Si può seguire la strada principale, ma tagliando si fa prima.Uno spiazzo sterrato: li a 12 anni per la prima volta con mia mamma e mio nonno ho guidato la macchina. Guidato, si fa per dire. Mi si è spenta circa tredici volte. Ci sono spesso adulti un po’ nerd con aerei da 500 euro telecomandati, che fanno tornei, allenamenti o che ne so. Mio nonno ovviamente non perde mai occasione per ricordarmi delle mie avventure da autista. Proseguiamo. Ci sono piantine appena piantate, probabilmente da bambini e da ragazzi nelle scuole che stano facendo qualche progetto: ci sono dei cartelli, ma in realtà non mi sono mai soffermata a leggerli. Non sono la mia priorità. Un sentiero tra gli arbusti è segnato di tanto in tanto da attrezzi sportivi, di legno, alcuni messi meglio di altri, però abbastanza utilizzati. Si percorre questo percorso fino alla fine, senza mai pause. Mio nonno odia fermarsi o sedersi: mai vista una persona più curiosa del mondo esterno. E non per analizzarlo, ma semplicemente per vederlo. Le chiacchiere riguardano sempre le stesse cose: vecchi ricordi del tempo che hanno speso con me, mio fratello e mamma a Roma, il divorzio dei miei, le tremila cugine di mia nonna, o racconti della loro infanzia, quelli che preferisco. Ma anno dopo anno i racconti sono sempre meno nitidi, ci sono sempre più buchi, e con tristezza so benissimo che io non posso colmarli.

Arriviamo alla fine: la Ermita.Per chi non sapesse cosa sia, in quasi tutti i paesi spagnoli, piccoli o grandi che siano, c’è una ermita. Questa è una piccola chiesa, isolata rispetto al centro cittadino, chiusa per la maggior parte dell’anno poiché non si celebra un culto permanente.Che io sappia si apre solo il giorno della Romeria (a settembre), dopo la processione che si tiene in pese dedicata alla Vergine. Ma io sono abbastanza sicura di non essere mai entrata. È una costruzione in pietra semilavorata, come la maggior parte delle chiese del centro della Spagna, con tetto spiovente. Le finestre hanno delle grate che rendono difficile la visuale all'interno: mi ricordo dei banconi di legno scuro, un interno buio e un altare che fa da sfondo ad un ambiente piccolo e raccolto. Io e mio nonno ci affacciamo sempre per vedere l'interno. Dall’ermita si vede la piccola Colme in lontananza, e dall'altra parte, ancora più lontano, El Escorial. Li si sono sposati i miei genitori; è una città abbastanza grande, con un monastero meraviglioso che anticamente era la residenza estiva della famiglia reale, ai tempi di Filippo II. Facciamo il giro della chiesa, un po’ toccando le pietre e un po’ osservando dei pannelli di legno intagliati dove sono raffigurate delle scene di vita di Gesù. La spianata di fronte all'ingresso è interrotta da banconi di pietra ancorati a terra, perfettamente scomodi per celebrare la messa i giorni dell’apertura dell’ermita. Finiamo di circumnavigare la chiesa e poi, cautamente e sempre più lentamente con il passare degli anni, saliamo su una piccola montagnetta artificiale sulla cima della quale c’è una croce e un piccolo belvedere. L’ultima volta che sono andata con mio nonno, nel 2016, la croce era appena stata sostituita e adesso era nuova e in perfetto stato. Lui era contentissimo, adora l’educazione e la buona condotta.Dal belvedere si vede la Sierra di cui parlavo all’inizio, e in particolare, quella porzione a destra dell’Escorial chiamata “Los 7 picos”. Mio nonno mi chiede di interpretare il cartello (sempre più scrostato) che è nei pressi della balaustra, per leggere i nomi delle sette cime svettanti che si vedono dalla nostra posizione. Chiaramente li ho letti duemila volte ma non me li ricordo. Ogni volta che saliamo io immortalo il momento con una bella foto, un selfie per essere precisi. Ma tanto per mio nonno non fa differenza perché non conosce assolutamente il significato della seconda parola e il prodotto finale è comunque un’immagine con le nostre facce. Come è diverso il paesaggio del centro della Spagna da quello italiano. E pensare che molto spesso i due paesi vengono confusi.La Spagna è un paese prevalentemente secco, quasi privo di laghi e con pochissimi fiumi. Il paesaggio infatti è prevalentemente marroncino, perché l’erba (praticamente paglia) non è verde e rigogliosa. Ogni tanto però c’è uno sprazzo di verde, ma verde scurissimo e rado, che costituisce i cespugli presenti di tanto in tanto, oppure gli alberi di altezza media.Da li non si sente nulla di nulla. Ogni tanto un ciclista. Ogni tanto una macchina.L’ultima volta che sono stata li tutto era diverso: il mio accompagnatore era mio cugino, faceva freddo e non ero particolarmente serena.Però chiudendo gli occhi sono tornata indietro: sempre lì, con mio nonno, nel nostro tempo, ed io ero la persona più completa del mondo. 

Le due parole scelte per definire il mio imprinting sono: coerente frammentarietà. Coerente, perchè è coerente con il contesto, con le abitudini, con il tessuto, con la natura e con la misura. L'intervento dell'uomo si dirada uscendo dal centro cittadino, punteggiando "el campo" di piccoli ma utili segni. Quasi come un intervento di agopuntura. Ecco perchè frammentarietà.






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